Teatro

Berlino, Fastaff

Berlino, Fastaff

Berlin, Deutsche Oper, “Falstaff” di  Giuseppe Verdi

Falstaff e le varie età

Per strane coincidenze la Casa Verdi, il ricovero milanese per vecchi musicisti indigenti istituito a Milano dallo stesso compositore, ha di recente offerto ispirazione per lavori cinematografici e teatrali, da “Quartet” di Dustin Hoffman, al Falstaff secondo  Michieletto visto a Salisburgo (recensione presente nel sito). Anche Christof Loy, che dichiara di aver preso spunto dal documentario “Il bacio di Tosca” di Daniel Schmid  del 1984,  ambienta la nuova produzione di Falstaff della Deutsche Oper in una casa di riposo per fare dell’ultimo capolavoro verdiano una riflessione su età e vecchiaia.
L’opera è preceduta dalla proiezione di un divertente film in bianco e nero che ricorda il linguaggio delle comiche dei film muti, girato dallo stesso Loy  nell’Hotel Bolivar di Berlino, un fatiscente albergo del Ku’damm non più in attività, che suggerisce un ospizio dove Falstaff, accompagnato al pianoforte, canta “Quando ero paggio”  per  intrattenere gli anziani e  compiacersi delle passate glorie. L’aria, che all’ascolto risulta stentorea e straniante, quasi una parodia di sé stessa, è in realtà un’antica registrazione del 1907 di Victor Maurel, il primo interprete del ruolo tanto apprezzato da Verdi.

Senza soluzione di continuità dal film si passa alla hall di una casa di riposo delimitata da tendaggi di velluto rosso (scena di Johannes Leiacker) affollata di vecchietti decrepiti dove a vista vengono spostati e posizionati alcuni mobili funzionali alla vicenda: via il pianoforte, in  primo piano il letto di Falstaff davanti a una libreria, oppure un baule o un paravento. Falstaff e i suoi compari sono tutti anziani avvinazzati e in parte invalidi, come del resto le vecchie comari in pantofole dall’aspetto trascurato  rese curve dal peso degli anni. Ma quando Falstaff avvia il suo piano, assistiamo a una trasformazione  a vista: i personaggi si spogliano dei logori vestiti, si levano le parrucche e diventano giovani agili e frizzanti in eleganti abiti sartoriali anni ‘50. Diversamente da altri lavori  di Loy, regista molto intellettualistico ma anche logico, non è del tutto chiaro il motivo della metamorfosi da vecchio a giovane (e ritorno, in quanto i personaggi tornano vecchi) che scandisce la vicenda e che, oltre a interferire con lo sviluppo drammaturgico, genera confusione e distrae dalla musica e dal testo. Loy non crea dei raccordi logici fra le situazioni, anzi vuole mettere in scena quanto di illogico c’è nella vita, e lo spettatore prova un senso di frustrazione e si chiede che cosa significhino i continui cambiamenti di età e aspetto dei personaggi. E’ forse il sogno impossibile di giovinezza del vecchio protagonista solleticato nei sensi da un’avventura galante? Il desiderio revanchista di un borderline senza tetto? L’affermazione femminile nei confronti dell’uomo predatore? La forza della gelosia di un marito tradito? Che cosa si nasconde dietro un movimento scenico che non ha nulla di casuale ma che risulta incomprensibile nella sua perfezione? Che cosa vogliono dire le valigie rovesciate sulla scena come i detriti di un fiume da cui poi i personaggi tireranno fuori i loro abiti da anziani per travestirsi ancora una volta durante la fuga finale? La continua metamorfosi significa forse che tutto è burla? Il tema della vecchiaia e del diventare vecchi in realtà non viene approfondito e anche l’ambientazione nella Casa Verdi risulta marginale; quello che però purtroppo avviene è che un’opera “perfetta” dal punto di vista drammaturgico e musicale viene inutilmente appesantita da un gioco scenico incessante che, anziché valorizzarla, la nasconde e la rende oscura, quasi fosse un’altra storia. I personaggi non vengono caratterizzati e anche le situazioni non sono sfruttate nel modo giusto: c’è talmente tanta confusione e dispersione nel finale del secondo atto (Alice a letto con un giovane paggio, personaggi e comparse che si muovono senza sosta) che quando si scopre la coppia dei giovani innamorati dietro il paravento viene meno l’effetto sorpresa. Oppure nella scena del bosco ballerini in tulle e tutù travestiti da fate faranno pur sorridere ma anticipano inutilmente la burla ai danni di Ford e del Dr. Cajus.

La complicata produzione si è avvalsa di  un cast di giovani cantanti tutti molto precisi da un punto di vista scenico e coreografico. Noel Bouley, giovane stipendiato dal teatro che ha sostituito all’ultimo il previsto Markus Brück, crea un personaggio di notevole vis comica che per certi versi ricorda il Falstaff di Terfel ma la voce, se pur interessante e brunita, risulta ancora sottodimensionata e non ha quella possanza richiesta dal ruolo.
Joel Prieto ha voce di timbro chiaro adatta al ruolo di Fenton e se ne apprezza il lirismo leggero e al tempo stesso ardente. Il Ford di Michael Nagy canta con giusta musicalità ma non risulta abbastanza incisivo. Buone sorprese per quanto riguarda le voci femminili, in particolare incanta la deliziosa Nannetta di Elena Tsallagova di cui si apprezza dalle prime battute il canto sfumato e l’eccellente dominio dei fiati. Barbara Haverman è un’Alice di classe, dalla linea di canto elegante e curata e ottima dizione. Spiritosa e dalla fisicità prorompente la Quickly di Dana Beth Miller dalla bella voce scura. Meno a fuoco la Meg di Jana Kurucovà. I ruoli minori  non sono sufficientemente caratterizzati e il continuo mutare di travestimenti non aiuta. Thomas Blondelle è un  impacciato Dr. Cajus, Marko Mimica dona voce sonora a Pistola e Gideon Poppe è Bardolfo.

Donald Runnicles privilegia commedia e gioco alla malinconia con una direzione energica e avvincente che risulta funzionale dal punto di vista drammaturgico, ma la direzione, anche penalizzata dalla regia, non ha quella sfumata  leggerezza necessaria per generare un continuo mutamento di prospettive e atmosfere.

Buona accoglienza da parte del pubblico che ha tributato calorosi applausi a tutti gli interpreti.

Visto a Berlino, Deutsche Oper, il 5 dicembre 2013

Ilaria Bellini